In caso di caduta: rialzarsi, pulirsi il vestito e rimettersi in sella. Sempre. – Intervista a Fabio de Martino
Oggi vi proponiamo la nostra intervista a Fabio De Martino. Fabio lavora in una multinazionale in Svizzera e è Startup Mentor in PoliHub. Alle sue spalle ha l’esperienza di una startup fallita e oggi ci racconta quello che ha imparato.
Siamo certi che tutti, in qualsiasi situazione si trovino, possano trovare importanti spunti di riflessione in questa intervista.
Iniziamo!
Ciao Fabio, spiegaci un pò chi sei e a che progetti stai lavorando ora?
Mi definirei un soggetto dalla personalità poliedrica. Sono ingegnere civile, con un master MBA e tanta voglia di fare.
Mi sono avvicinato al mondo delle startup quando, con alcuni colleghi di master, abbiamo provato a concretizzare un’idea (campo della sharing economy) creando E-FIT.
Dopo quell’avventura, nata e morta nel giro di un anno solare o poco più, ho cercato di analizzare le cause di quell’insuccesso, provando a capire come “giovani brillanti”, con entusiasmanti carriere in aziende strutturate ed internazionali non siano riusciti a concretizzare un’idea potenzialmente vincente.
Ma soprattutto, da allora, sono rimasto nell’orbita di altre startup cercando di supportarle nel loro “percorso per diventare grandi”.
Nell’ultimo anno ho cercato di consolidare le mie (poche) conoscenze sommando alla mia (tanta) voglia di fare un metodo di lavoro e di mentorship concreto e strutturato, grazie al percorso Executive per diventare Mentor offerto dal Polihub di Milano.
Che cosa ti ha spinto a iniziare E-FIT e che cos’era?
L’idea è nata da una mail inviatami dalla palestra in cui ero iscritto. Mi ricordava che era in scadenza il mio abbonamento semestrale. Leggendo la mail mi sono accorto che per impegni lavorativi, accademici e familiari non avevo mai messo piede in quella palestra. Mai in sei mesi.
Da qui è nata la nostra idea. Ci siamo interrogati sulle esigenze delle persone, vedendo il fitness come uno “step to start well your day” ma mettendo nero su bianco le difficoltà quotidiane nell’applicare tale principio, nonché le criticità degli abbonamenti offerti dai centri fitness (convenienza per abbonamenti di lunga durata, poca o nessuna flessibilità di utilizzo, nessuna possibilità di cessione ecc.) ed il reale utilizzo degli stessi.
Ci siamo chiesti: è possibile introdurre uno sharing sugli abbonamenti? Abbiamo visto che online c’erano un sacco di annunci di privati che provavano a condividere o cedere il proprio abbonamento, facendo leva su lacune normative/assicurative e sulle differenze di regolamento dei singoli centri fitness.
E-FIT era quindi uno strumento nato per lo sharing di abbonamenti di centri fitness. Abbiamo iniziato a svilupparla come App ibrida (multipiattaforma), volendo arrivare al risultato più rapidamente di un app nativa e volendo trarne i benefici in termini di manutenzione dell’applicazione e successivi upgrade.
Il servizio si basava su tre pilastri:
- la possibilità, per l’utente, di ricerca del centro fitness (per località, per corso/sport o per struttura),
- la possibilità, per l’utente, di vedere una lista di persone che volvevano condividere il proprio abbonamento (secondo i requisiti della ricerca),
- la possibilità, per i possessori degli abbonamenti, di condividere alcune informazioni (es.: informazioni sul tipo di abbonamento e servizi collegati).
Una volta fatto il match tra esigenze e abbonamento (ovvero tra utente e utente) veniva fornita una panoramica sui costi di utilizzo, per i quali avevamo ipotizzato delle metriche di calcolo, le quali comprendevano una fee (nostra monetizzazione) per la gestione del servizio.
Inizialmente abbiamo concepito il modello includendo le palestre. La revenue sarebbe arrivata dagli utilizzatori e dalle palestre (qualora le avessimo convinte del potenziale guadagno che avrebbero avuto, grazie alla vendita di prodotti e servizi accessori e quindi grazie ad un numero maggiore di utenti).
Le palestre, inoltre, avrebbero avuto degli spazi pubblicitari per poter attrarre nuovi utenti.
Abbiamo poi pivottato cambiando modello, “escludendo” le palestre e rivedendo il sistema di monetizzazione. Questo per semplificare il modello stesso. Le idee di sharing economy sono molto semplici (almeno all’inizio).
Blablacar ha, ad esempio, integrato successivamente Axa e Paypal, ha complicato solo in un secondo momento il suo modello di business che inizialmente era, passatemi il termine, banale.
Fin dove sei arrivato con il progetto? Quando hai capito che era meglio smettere?
Abbiamo investito molto tempo in un dettagliatissimo (e poco utile) business plan. Abbiamo validato l’idea grazie ad una serie di questionari online (non aventi natura statistica, ma utile a confermarci l’esistenza di un problema, di una necessità e quindi a validare il nostro modello di business) e abbiamo iniziato a sviluppare l’app.
Ci siamo concentrati su molti aspetti escludendone altri, vitali.
Ad esempio abbiamo fatto un’analisi sommaria dei competitors. L’idea era già stata concretizzata negli USA, sarebbe stata un buon esempio di Copycat.
Inoltre non abbiamo ben valutato e affrontato le implicazioni derivanti dalla cessione di abbonamento a terzi (la normativa era nebulosa, ma i regolamenti delle singole palestre molto chiari e molto differenti tra loro).
Inoltre il team non era più motivato (o meglio eravamo tutti assorbiti al 150% dalle rispettive carriere) e non c’era stata una chiara definizione dei ruoli.
Come per tutte le startup le idee valgono l’1%. Il 99% è esecuzione.
Quando abbiamo capito che la motivazione iniziale era scemata, quando abbiamo capito che stavamo buttando tempo e soldi (la parte di sviluppo app era in outsourcing, altro grande errore …) abbiamo deciso di lasciare perdere.
Se vogliamo scandire il progetto secondo gli stati di evoluzione di una startup direi che abbiamo affrontato la “fase bootstrap” e poco più.
Sei riuscito a renderti subito conto degli errori che stavi facendo?
Direi assolutamente no!
Guardando ora le cose, in maniera “distaccata” e con una maggior esperienza, potrei dire cosa tenere e cosa cambiare di quel progetto.
Se tornassi indietro, cosa faresti di diverso? Che cos’hai imparato?
Fortunatamente penso di aver imparato molte cose. Il mondo imprenditoriale italiano è molto influenzato da una cultura denigrante nei confronti del fallimento. E’ un concetto sbagliato.
Una startup commette errori solo quando sbaglia senza imparare nulla.
Questo è il primo grande insegnamento.
Cos’altro ho imparato?
Ho imparato che l’idea vale poco e il team vale molto. Un buon team, con ruoli chiari e definiti (una squadra funziona grazie alla definizione dei ruoli, altrimenti è solo un gruppo di persone), con “fame” e motivazione ha maggiori possibilità di portare al successo una pessima idea. Pivotterà, sbaglierà e cambierà rotta, non si darà mai per vinto. Un’ottima idea in mano ad un team mediocre fallirà sicuramente.
Ho imparato che l’armonia di competenze nel team di una startup è fondamentale. L’errore più grande è dire: “ma si, assumeremo qualcuno prossimamente”. Certo, discorso valido, ma non per le competenze core e per i ruoli fondamentali. L’outsourcing fatto con E-FIT è stato deleterio.
E’ come avere in mente un bel quadro ma non saper dipingere, cercando un pittore che possa farlo al nostro posto. Per non fallire una startup deve coprire tutte le professionalità fondamentali con il team iniziale. Punto.
Ho imparato che fare startup è una cosa molto seria e ho imparato che lo stereotipo del ragazzo con la felpa, che magicamente crea un impero partendo dal garage di casa, è assolutamente sbagliato. Cancellare.
Ho imparato che startup ≠ nuova azienda, ma anche che startup ≠ azienda in piccolo. Abbiamo affrontato E-FIT come fosse un’azienda consolidata. Pagine e pagine di Business plan, proiezioni a 5 anni, analisi swot dettagliatissime. Abbiamo speso 1 anno sulla parte di implementazione, cercando asintoticamente la perfezione, perdendo di vista tutto il resto.
Ho imparato che bisogna correre.
Correggere il tiro in corsa.
Continuare a correre.
Cercare la perfezione è sbagliato.
Bisogna buttarsi sul mercato e ascoltarne i riscontri.
E’ per questo che sei diventato un mentor?
Si, direi che questo è uno dei motivi principali.
9 startup su 10 non sopravvivono ai primi 3 anni di vita.
Il Mentor può ridurre il rischio.
Inoltre il Mentor ha un grandissimo vantaggio sullo startupper: sa essere oggettivo e distaccato.
Lo startupper è (fortunatamente per molti aspetti, sfortunatamente per altri) innamorato della propria idea. Questo spesso lo rende miope e vulnerabile.
Qual è il consiglio più importante che daresti a chi sta iniziando un’idea?
Non smettere mai di intraprendere e non lasciarsi scoraggiare dal fallimento.
Il successo (ognuno può declinarne il significato come meglio crede) è sempre una combinazione di sforzo x perseveranza. Non ci sono formule magiche.
E in caso di caduta. Rialzarsi, pulirsi il vestito e rimettersi in sella. Sempre.
Startup Geeks affianca la crescita di chi vuole innovare trasmettendogli le migliori conoscenze, competenze e network per farlo al meglio.
Lo facciamo attraverso attività di divulgazione, formazione, network e incubazione focalizzate sullo sviluppo di nuovi progetti imprenditoriali. Vogliamo superare le barriere territoriali erogando le nostre attività online per renderle accessibili ovunque ci si trovi.
Abbiamo creato lo Startup Builder per accompagnare chiunque abbia un’idea di business a trasformarla in una startup. Un programma di incubazione online con cui ad oggi abbiamo supportato già 681 progetti e 1300 founder che hanno raccolto 6 milioni di € di capitale.
Innoplace è invece la community per startupper che permette a oltre 1000 founder di fare network, ricevere mentorship, formarsi e accedere a migliaia di euro di sconti per supportarli nella crescita del proprio progetto imprenditoriale.